SULLA RAGIONE DELL’IMPOSTA – di Amilcare Puviani

SULLA RAGIONE DELL’IMPOSTA

Giornale degli Economisti, SERIE SECONDA, Vol. 22 (Anno 12) (GENNAIO 1901), pp. 14-34

I.

   Quasi fino ai nostri giorni la scienza delle finanze non sentì il bisogno di studiare accuratamente la questione dei motivi determinanti il contribuente all’imposta. La ricerca pareva dovesse assumere il più alto interesse dal momento, in cui si instaurò lo stato popolare. Prima d’allora, durante il reggimento dei governi assoluti, essa doveva parere improponibile. Nello stato di diritto divino l’imposta era un dovere assoluto verso l’autorità; l’individuo non aveva diritto di pretendere in cambio del tributo questo o quel servizio pubblico; la designazione di questi non gli apparteneva. Essa spettava invece al principe, il quale del miglior impiego dell’imposta doveva rispondere, non ai suoi sudditi, ma a Dio. Su tali concetti insistettero ripetutamente Carlo I e Luigi XV alla vigilia delle due grandi rivoluzioni, l’inglese e la francese.

A prescindere quindi dall’incuranza, che la filosofia e l’economia politica del secolo XVIII e della prima metà di questo secolo ebbero per le indagini storiche1, la ricerca dei motivi individuali determinanti l’imposta in riguardo al periodo dell’assolutismo non poteva essere iniziata. Anche meno una tale ricerca poté essere compiuta nelle città democratiche dell’antichità e del medio evo per tutte quelle ragioni che impedirono il sorgere della scienza economica e della scienza finanziaria.

Sembrerebbe invece che il problema dei motivi dell’imposta avesse dovuto assumere la più alta importanza quando lo stato si fondò sulla sovranità popolare. I fini dello stato si fanno allora scaturire dai bisogni dei privati espressi direttamente od indirettamente (rappresentanze popolari). In un primo periodo allora la scienza dichiara che la ragione dell’imposta deve vedersi nel vantaggio dei singoli individui e, con qualche incertezza, anche nel vantaggio della collettività. Senonché qui la designazione dei fini, che dovevano essere raggiunti per mezzo delle imposte, non fu considerata come propria degli individui, non fu cercata entro la loro coscienza. Parve che questi, come il governo, avessero da natura assegnata una sfera particolare d’azione. Tutta l’attività umana nelle sue molteplici manifestazioni avrebbe dato luogo a risultati armonici, secondo un ordine di natura, secondo un piano stabilito dalla provvidenza, secondo un pensiero divino.

La funzione giuridica del governo emanava dalla natura; non era una questione di apprezzamento, ma una verità indefettibile. L’imposta era dunque il corrispettivo di ciò, che il governo faceva per volere divino o per un ordine naturale. La scienza si credé lecito di passare sopra a ciò che pensasse l’individuo per ricercare invece i grandiosi disegni, che sono composti coll’opera di lui da una mano invisibile.

Questo punto di vista era venuto in chiaro coli’ irrompere della libera concorrenza, la quale aveva ben tosto mostrato che all’infuori e al di sopra delle volontà individuali, slegate ed anarchiche e degli sforzi dei principi e dei governi, le azioni umane componevano tutto un sistema di leggi economiche.

D’altro canto a questo stesso punto di vista la scienza era condotta dalle nuove scoperte statistiche. Sia che si avesse riguardo all’opera del Süssmilch, che svelava nelle nascite, nei matrimoni e nelle morti un « ordine divino » sia che si avesse riguardo alla concezione materialistica della vita sociale, quale scaturiva dalle indagini dei gran matematici francesi inventori del calcolo delle probabilità, la forza morale di ogni singola azione, il pensiero individuale perdevano significazione nei risultati generali. È proprio nell’epoca della maggiore esaltazione individualisti che l’individuo appare come un elemento incosciente dei grandiosi risultati dell’opera sua.

E poiché l’ordine naturale avrebbe ben dovuto compiersi per la forza cieca delle iniziative individuali, dopo che le ingerenze indebite del governo erano cessate, che importava adunque la ricerca della volontà dei singoli?

D’altro canto chi si tenne fermo alla libertà morale, alla responsabilità e alla maggiore dignità umana, si consolò nella speranza che la scienza avrebbe dato ben tosto alle moltitudini una piena coscienza dell’opera loro ed affrettata l’attuazione dell’ordine naturale. Con una certa incoerenza al pensiero materialistico invadente, la scienza, comunque cosmopolitica ed astratta, assunse una importanza immensa. I suoi dettami si pensò dovessero trovare pronta attuazione; gli errori, i pregiudizi degli individui dovessero d’un tratto dileguare innanzi allo sfolgorio della verità.

Il fatto però fu questo, che il popolo minuto, come dimostrò il Cunningham rimase sordo alla voce dei teorici della libertà industriale ed ai motivi che essi consideravano come determinanti l’imposta.

§ II.

   Intanto veniva in voga un nuovo concetto dell’imposta. Con questa il contribuente non provvedeva più direttamente ai bisogni del principe, né ai bisogni propri ; sibbene ai bisogni della collettività politica, cui apparteneva. Ma anche qui i motivi determinanti l’imposta non si cercarono nella psiche dell’individuo reale, coi suoi pregiudizi, coi suoi errori, colla sua limitata libertà di azione. La nuova teoria dell’imposta si collegò ad un concetto del governo diverso dal concetto che ne ebbe la filosofia e l’economia borghese. Al governo si attribuirono funzioni, non più soltanto di indole giuridica, ma d’indole etica.

Da lungo tempo dagli infimi strati sociali si innalzavano indefinite speranze verso il governo. Già remotamente accese dal carattere sacro del principe, poi attizzate durante il periodo del despotismo illuminato, esse divennero più che mai ardenti negli animi della plebe rivoluzionaria francese e dei suoi intellettuali. Ma fu coll’irrompere della grande industria, colla libera concorrenza, colle sue perturbazioni spietate, colla rumorosa discesa nel campo industriale di un infinito esercito di giganti insensibili dalle membra di legno e di ferro, che le turbe dei sofferenti perdettero ogni confidenza in loro stesse, nei loro sforzi privati. Il bisogno confuso di una grande potenza terrena che le aiutasse nel momento, in cui si dissolvevano i loro vincoli con Dio e coi padroni, le spinse a concepire un governo benefico, un governo provvidenza, un governo onnipotente. Quei vinti, quegli inutili, quegli umili non ebbero la presunzione di dirigere la molteplice azione del governo e neanche di intenderla. Il povero, come non ebbe fede in sé stesso, abdicò alla propria ragione e confidò cieco in quella del governo.

Nello stesso tempo gli statistici, proseguendo la via intrapresa dagli aritmetici politici inglesi e dai matematici francesi, dimostrarono in un teatro sempre più vasto come le azioni umane mancassero di libertà. I fenomeni sociali si componevano in medie ed architettavano un grande ordine al di sopra e all’infuori della volontà individuale.

In questa condizione di cose si fece strada la filosofia di Hegel e tosto sovraneggiò. Con essa il governo si staccava dagli individui, onde è’ composto, si spogliava dalle passioni di questi, si sollevava in alto come un essere divino. La ragione dimostrante i beni, che lo stato doveva attuare, era superiore al pensiero della maggior parte degli uomini, poteva esplicarsi e compiersi indipendentemente da essi, era l’Idea attuantesi nella storia. La storia del mondo si divideva in periodi, aventi una missione propria, che i motivi speciali dei singoli individui non avevano determinata e che questi potevano comprendere e parzialmente promuovere soltanto in una fase d’intensa civiltà.

Intanto il metodo storico applicato al diritto ed all’economia politica insisteva sulla necessità di considerare ogni corpo sociale come un grande organismo, regolato da leggi proprie e particolari ad ogni sua età, leggi ripetentisi dovunque in condizioni analoghe ed estranee al pensiero dei singoli individui.

Infine la teoria dell’evoluzione venne a svelare come dal semplice e dall’omogeneo la natura proceda verso il complesso e differenziato ; come dai ciechi movimenti degli esseri, dai singoli loro tentativi di individuazione e di riproduzione, dal loro comporsi e decomporsi in condizioni speciali si formassero sempre nuovi organi, nuove funzioni, nuove specie, cosicché infine l’opera meravigliosa della natura appariva composta da artefici incoscienti, estranei al pensiero, che per essi si svolgeva e si arricchiva.

Da ogni parte adunque si ripeteva che la coscienza degli atti individuali diveniva un elemento trascurabile nell’opera della natura e quindi anche nell’opera del costituto politico.

Ebbene, quando le iniziative economiche private sembrarono inette ad attuare un ordine naturale o divino, quando la statistica constatava la minima importanza degli atti morali degli individui nella vita sociale, quando la filosofia, il diritto, il socialismo premarxista ed il socialismo realistico concepivano il governo come un ente di natura superiore, attuante un fine proprio, anche la scienza delle finanze seguì l’indirizzo teorico prevalente. Essa non si domandò da quali motivi individuali l’imposta fosse determinata. Che importava d’interrogare il pensiero dei singoli contribuenti dal momento che lo stato doveva provvedere al bene comune secondo un pensiero estraneo alla coscienza individuale? Nessuna meraviglia quindi che l’imposta fosse concepita come un dovere verso lo stato, come un dovere uscente dalla ragione delle cose, da un bisogno organico dell’ente politico.

Ma le forze obbiettive che determinano gli atti politici « che furono poi più profondamente studiate dalla teoria materialistica della storia, dovevano essere considerate nella loro subbiettivazione, nella loro trasformazione in motivi della condotta dei contribuenti. Solo così si sarebbero potute conoscere le cause prossime, il ricco contenuto morale dell’imposta, le sue varie significazioni attraverso la storia per le singole classi sociali e per i singoli individui.

§ III

   La così detta concezione materialistica della storia condusse ad una nuova concezione dell’imposta. Secondo quella teoria la vita dei vari popoli si svolge sotto la dipendenza delle forze economiche, si distingue in grandi periodi in relazione al predominio dell’uno o dell’altro dei mezzi tecnici della produzione o, forse meglio, dei rapporti di distribuzione. Tutte le manifestazioni dell’attività sociale e politica si modificano profondamente col modificarsi del sistema economico ed il governo quindi, che nelle condizioni di primitiva eguaglianza di beni, aveva potuto tutelare gli interessi generali, diventa, dal momento in cui il lavoro perde la sua preminenza nella produzione ed una parte del suo prodotto nella distribuzione, un organo dipendente dagli interessi della classe economicamente più forte. Allora l’imposta, che da principio aveva veramente servito ad assicurare il comune vantaggio, diventa uno degli strumenti, coi quali una parte della società riesce ad assicurare a se stessa una esistenza oziosa e parassitaria; un mezzo per mantenere i salari entro tali limiti da impedire ai lavoratori l’accumulazione, l’indipendenza, la quale avrebbe per ultimo effetto l’assoggettamento dei ricchi alla bisogna produttiva.

Questo il concetto dell’imposta, che discende dalla teoria della concezione materialistica della storia, non abbastanza lumeggiato nel suo svolgimento dal Marx e dall’Engels.

La Teoria materialistica della storia ha un grande merito per la scienza delle finanze. Infatti, secondo un tale sistema filosofico, l’imposta non poté più essere considera ideologicamente, come ciò che dovrebbe essere e come un dovere verso lo stato in relazione necessaria alla felicità comune e quindi come materia dell’arte politica ma fu considerata come un fenomeno della storia, legata ad un processo di forse, come un fatto dipendente da altri fatti, che il pensiero speculativo poteva investigare.

Il punto di vista scientifico della finanza veniva cosi in evidenza ; simultaneamente la teoria dell’arte politica perdeva gran parte della sua importanza, dal momento che l’imposta era legata ad un ordine di fatti, ad un processo superiore alle forze di qualsiasi uomo di stato.

Ma anche qui il nuovo concetto dell’imposta fu considerato soltanto in relazione alle cause obbiettive e remote di essa, ad un grande processo di forse dominante la storia del mondo, inconsaputo alla coscienza dei contribuenti. Anche qui adunque il determinismo, ma il determinismo considerato in sé, non in quanto esso operi come motivo nel foro interiore ; anche qui la mancanza di una indagine delle cause prossime e subbiettive dell’ imposta.

Ma poi questa, considerata come una serie di atti di spogliazióne, diventava inintelliggibile, poiché si affacciava per la prima volta l’ assurdo che le masse dei contribuenti compissero atti contrari ai propri interessi e ai principii fondamentali della vita.

Una tale contraddizione era stata dissimulata dalle teorie precedenti. Anzitutto l’imposta, a prescindere dalla sua rispondenza più o meno ristretta agli interessi comuni, non è e non è stata soltanto un’ atto di violenza, ma anche di astuzia.

L’imposta risponde alle esigenze di conservazione dell’ordine politico costituito ed in certa guisa rivela le qualità, che il grande Machiavelli vorrebbe raccolte nel principe.

Questi, secondo lui, deve « saper bene usare la bestia e l’uomo », e fra le bestie deve assumere gli attributi, non solo del leone, ma anche quelli della volpe2. In gran parte l’imposta fu presentata ai contribuenti con tali accorgimenti che la nascondessero o ne attenuassero la penosità, mentre con altri accorgimenti si esagerava nel pensiero dei cittadini il valore dei servigi pubblici. L’astuzia, la prudenza, le stesse esigenze della tecnica tributaria consigliarono in ogni tempo a girare attorno agli ostacoli, ad evitare fiere resistenze.

I vincitori agivano così nel loro interesse, procurando di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo; ma ciò appunto poteva essere ottenuto soltanto col presentare alla coscienza dei contribuenti le entrate e le spese pubbliche sotto certi aspetti, col provocare nelle masse certi giudizi speciali. In quanto poi l’imposta fosse un atto di violenza, anziché di astuzia, non poteva essere intesa finché chi, la subiva la riguardava come un male assoluto o prevalente, anziché come un bene relativo ; finché non si riusciva a comprendere in vista di quali altri beni, all’infuori del bene comune, il contribuente la soffrisse. Solo così si riesce a comprendere come il fenomeno finanziario rientri nella sfera di tutte le attività umane coscienti ed in dipendenza dal principio edonistico.

§ IV

   II merito insigne del Sax, onde il suo nome sarà iscritto nel libro d’ oro della scienza finanziaria, fu di aver cercato le ragioni dell’imposta nel foro interiore del contribuente, nei motivi determinanti la sua condotta. Egli capì che l’imposta pagata dal suddito, poi dal cittadino, fu, è, sarà un fatto di elezione, legato a quei procedimenti, coi quali l’individuo cerca la maggiore felicità possibile. Egli riuscì a subordinare la congerie sterminata di quei fatti esteriori, che costituiscono il pagamento dell’imposta, ad un’unica e grande legge interiore, la legge del valore.

Secondo il Sax, l’imposta risulta dalla rinunzia da parte del contribuente all’impiego di alcune sue ricchezze per la soddisfazione di certi suoi bisogni individuali, collo scopo di destinarle invece alla soddisfazione di altri suoi bisogni collettivi, stimati più importanti. La differenza tra il valore soggettivo minore, ottenibile dalle soddisfazioni dei bisogni individuali, cui si rinunzia ed il valore subiettivo maggiore delle soddisfazioni di bisogni collettivi, chiesti agli enti politici, costituisce l’utilità marginale, differenziale, relativa o la ragione dell’imposta. Per la soddisfazione di bisogni collettivi sentiti da tutti, ciascuno in ragione della quantità di ricchezze possedute e del pregio che le singole unità di queste hanno per lui, ne cede allo stato tale misura, che vale infine a stabilire l’eguaglianza contributiva.

Ed ecco che una volta ancora la scienza delle finanze subiva l’influenza di un grande bisogno dei tempi. Già un bisogno confuso, vago, di più in più durante tutto questo secolo aveva spinto gli uomini ad ascoltare le loro voci interne.

La letteratura nella poesia, nel romanzo personale e nel romanzo psicologico aveva raccolte quelle voci, incontrando sempre più il favore del pubblico. Una nota caratteristica del Secolo XIX è questa, che quasi tutti i suoi grandi letterati sono stati grandi psicologi ; da Byron, Sw-inburne, Manzoni, Leopardi e Lermontoff, fino ad Amiel, Flaubert, Maupassant, Bourget, Turghenieff, Dostoievsky, Tolstoi ecc. È l’epoca, in cui, perduta l’antica credulità e buona fede, la religione, il senso della sofferenza umana e la rassegnazione, l’anima si slancia con nuovo ardore verso la felicità terrena e soffre acutamente del suo squilibrio. Ma è nell’ultima parte del secolo che penetra nella scienza il bisogno più preciso di conoscere i fenomeni psichici in loro stessi, nelle loro origini, nelle loro malattie e nei loro effetti sociali.

Allora sorge con Guglielmo Wundt la psicologia sperimentale e si formano dovunque degli osservatori di psicologia sperimentale, mentre la psichiatria con Ippolito Taine, col Ribot seguiti dal Fèré e dal Sollier, compie sui pazzi, sui nevropatici, sugli ipnotizzati le più ardite ricerche, giovandosi del metodo comparativo, genetico e più specialmente del metodo patologico. Sulla base delle ricerche psichiatriche sorgeva e si rafforzava una nuova scuola criminale positiva.

Intanto l’economia politica, la quale era stata spinta dalle sofferenze ed aspirazioni proletarie e dalle critiche del socialismo di più in più a porre l’ uomo, anziché la ricchezza, al centro delle sue indagini, ora per ben comprendere la natura dei fenomeni studiati diveniva psicologica, cercava di quelli le relazioni colla volontà, le dipendenze da un giudizio di confronto fra utilità e costo, faceva rientrare le varie soluzioni del valore, date dal valore di cambio e dal valore d’uso, nel valore subbiettivo e diveniva la scienza del valore.

E in questo stesso istante, sotto la influenza diretta del cambiamento che subisce l’ economia politica che sorge la teoria psicologica della finanza.

§. V.

   Se non che, mentre il Sax indicò nel modo più felice la condizione necessaria perché si verifichi un qualsiasi pagamento d’imposta, non seppe, a mio avviso, vedere nella loro pienezza i due termini di paragone nel giudizio valutativo del contribuente. Egli osservò tale concetto soltanto dal punto di vista, in cui si trova il contribuente in un momento speciale, in speciali condizioni storiche; ma non seppe del contribuente intendere la condotta nel più gran numero dei casi.

Infatti, in primo luogo, il Sax non vede in tutta la sua mobilità, il valore subbiettivo che hanno pel contribuente le sue ricchezze, le molte circostanze, che modificano la capacità contributiva e delle quali il finanziere, attraverso i secoli, ha tratto con arte squisita il maggior partito.

L’illustre professore Austriaco tenne conto bensì di alcune cause assai note, modificanti il valore subbiettivo dell’unità delle ricchezze di ciascuno, come l’ammontare complessivo di esse, il numero delle persone che sono a carico del contribuente ecc. Ma qui si ha riguardo soltanto a cause agenti con una relativa stabilità, con una certa durevolezza sulle valutazioni subbiettive della ricchezza. Vi sono però altre cause, le quali agiscono con effetto discontinuo, più brevemente e tuttavia con certe regolarità, onde poterono essere colte, utilizzate ed in parte provocate dal l’uomo politico. Si verificano eventi piacevoli, eventi penosi, privati e pubblici, i quali esaltano fugacemente la nostra propensione spendereccia, la nostra facoltà contributiva.

Si possono altresì sminuzzare le imposte con tali frazionamenti ed in certi casi aggrupparle in guisa tale, che la loro affettività per chi le sopporta sia considerevolmente mitigata. Su tutto ciò io mi sono così largamente diffuso nei capi VI, VII, VIII della Teoria dell’Illusione Finanziaria3 (1) da potere qui bene dispensarmi dall’insistervi.

Anche il secondo termine del giudizio valutativo del contribuente non fu in tutta la sua pienezza compreso dal Sax. Egli ed i suoi seguaci ragionano in guisa da lasciar supporre che il contribuente attribuisca utilità soltanto ad un certo numero di bisogni collettivi di una natura speciale, a quelli, cioè, i quali appaiono al filosofo, al giurista, come la condizione per lo sviluppo armonioso del corpo e dello spirito sociale.

Ora il vero è che tali bisogni per una gran parte dei contribuenti attuali e dei contribuenti dei tempi passati non ebbero efficacia o l’ebbero in misura limitatissima, onde sarebbe mancato per essi il motivo sufficiente a pagare quelle enormi contribuzioni, che effettivamente pagarono, mentre da un altro canto quelle moltitudini chiesero ed ottennero dal governo altri servigi, che la scienza delle finanze non ha ancora messo in luce e che tuttavia bastano in modo decisivo a spiegai^ la condotta di esse. Insomma si attribuirono a certe masse di contribuenti bisogni, che non sentirono e non si attribuirono loro bisogni che sentirono. Il primo di questi asserti è assai facilmente dimostrabile.

Solo una piccola minoranza riesce a rendersi conto di tutti gli sforzi compiuti dal governo per l’attuazione del diritto e della prosperità generale. Milioni e milioni di cittadini apprezzano il governo in vista di un piccolo numero dei suoi servigi, di quelli, da cui sono tocchi direttamente. Pel contadino, ciò che vale, è il drappello dei carabinieri, il maestro elementare, qualche volta l’ospedale, l’ufficio della maternità, la strada che conduce al mercato e ben poche altre cose. Egli confonde i servigi resi dallo stato con quelli resi dalla provincia e dal comune. Data l’ampiezza dei confini, la complessità delle funzioni degli stati moderni e l’ignoranza delle moltitudini, specialmente rurali, ben pochi riescono a farsi una idea, anche mediocremente approssimativa, di tutte le utilità positive e negative fornite dagli enti politici.

Vi ebbe un tempo, in cui le cose andavano diversamente. In uno speciale momento storico, di fronte all’imposta fu messo in piena luce un servigio pubblico, recante una soddisfazione prossima, specifica, precisa. Quando gli uomini non sono abituati a pagare le imposte e sono abbastanza forti per rifiutarle, oppongono alla loro introduzione un’energica resistenza; vi si sobbarcano solo di fronte ad uno specifico vantaggio. In Francia, fra il 1360 e il 1370, si riesce a stabilire l’imposta solo perché si tratta di ottenere con essa il riscatto del Re Carlo V e di rintuzzare il nemico. Per un certo tempo ad ogni tributo corrispondono servigi pubblici, che, data la piccolezza dello stato, la semplicità dei rapporti fra principe e sudditi, la pochezza dei bisogni, la limitazione delle spese, presentano un’ evidente carattere di utilità generale. Ma poco a poco la rispondenza fra certe imposte e certi servigi pubblici vien meno e questi perdono la loro perspicuità.

L’ampiezza del territorio, l’aggiunzione di nuovi aggregati all’ente politico, l’aumentare dei bisogni col benessere economico, la moltitudine e complicazione degli interessi che ne conseguono e delle funzioni del governo, le difficoltà contabili derivanti dalla destinazione di singole entrate a singole spese rendono sempre più difficile la designazione di un particolare servizio pubblico ad ogni imposta, rendono sempre meno comprensibile ed apprezzabile ciascun atto dell’ente politico.

Così adunque, col progredire della civiltà, la designazione di un utile di carattere pubblico, preciso ed immediato, accanto a ciascuna imposta viene cedendo il luogo ad una designazione di servigi pubblici mediati e complessi.

Ma questa seconda nozione del servizio pubblico, per quanto più elevata, certo ancora più vaga ed indecisa, permette il consenso del popolo a spese, ad opere ignorate; consente il funzionamento di un governo nascosto, incompreso nei suoi congegni, nei suoi veri fini alle moltitudini, che gli forniscono i mezzi necessari alla sua attività ; rende facile l’ equivoco, l’inganno, l’illusione su vasta scala; favorisce il distaccamento morale dei cittadini dallo Stato e la fusione di questo nel principe o in pochi ministri. Ciò che veramente il governo voglia e faccia, solo in minima parte è compreso e voluto dal contribuente. Varia da luogo a luogo il piccolo gruppo di utilità pubbliche riconosciute ed attese ; e l’alpigiano, il pianigiano, l’abitante sulla costa del mare, nella riva dei fiumi, in prossimità delle foreste giudicano l’attività del governo, quasi esclusivamente, secondo criteri propri.

Ma vi ha di più. Vi sono certe sfere più o meno vaste dell’attività pubblica, le quali da certi gruppi sociali sono stimate inutili o dannose agli interessi comuni, comunque esse sieno invece da altri giudicate in modo contrario. La legislazione sociale, per esempio, è stimata un pericoloso socialismo di stato da un buon numero di membri delle classi elevate; ma molti altri invece si ripromettono da essa i più grandi aiuti pel conseguimento della felicità comune. Il protezionismo industriale ed agricolo, le spese militari, la colonizzazione a mano armata, ecc., hanno a loro volta i loro fautori ed i loro avversari. Vi sono quelli, i quali vorrebbero contenuta l’ opera dei poteri pubblici in una sfera puramente negativa e condannano quindi tutto il programma positivo del governo, mentre vi sono altri, i quali attribuiscono a quest’ultimo il più grande valore. Infine non mancano quelli, che negano al governo qualsiasi attribuzione e lo vorrebbero soppresso, come gli anarchici, i nichilisti, ecc. Del resto la stessa funzione giuridica del governo, sulla quale parrebbe a prima vista dovesse cadere il pieno accordo di tutti i cittadini, è giudicata assai variamente in alto e in basso. Per ciò che essa si risolva nella difesa della proprietà, trova un bene scarso apprezza mento nei ceti inferiori, che della proprietà sono privi.

Anche i ceti medi possono e sogliono fare assai mediocre assegnamento sulla difesa pubblica dei loro diritti patrimoniali violati, dappoiché la legislazione farraginosa, le lungaggini della procedura, l’enormità delle spese giudiziarie, gli onorari degli avvocati e dei procuratori in un gran numero di casi costituiscono per un piccolo abbiente i più validi argomenti per rinunziare al ministero della giustizia. Gli è soltanto alle grandi fortune che è consentito di avventurarsi nelle lotte giudiziarie, di continuare il combattimento innanzi a tutti i gradi della magistratura, cui la causa può essere deferita.

Anche in quanto la funzione giuridica abbia tratto alla difesa della persona, assume un’importanza ben diversa pel ricco e pel povero. Quest’ultimo ha motivo di temere per la sua incolumità soltanto dai reati d’impeto, di passione; mentre il primo deve temere per la sua incolumità, non soltanto per questa specie di reati, ma anche di quelli che hanno per fine principale di spogliarlo della sua proprietà. Per il semplice fatto dell’esser ricco, l’uomo ha motivo di temere danno alla sua persona. La sua condotta coi dipendenti, coi lavoratori, coi suoi aventi interessi, più o meno equa, più o meno giustamente apprezzata ; le cupidigie che egli eccita nei suoi eredi, l’invidia che egli provoca fra i poveri, l’istinto cieco di ribellione di chi vorrebbe d’un tratto rimosse tutte le disuguaglianze economiche e sociali, creano intorno a lui un pericolo permanente.

È notevole il diverso grado di fidanza, che si ha per la giustizia sociale nelle classi superiori e nelle inferiori.

In alto l’offeso si rivolge quasi sempre all’autorità giudiziaria, in basso assai più raramente. Sia in causa della maggiore impulsività di chi per vivere ha meno bisogno di compiere grandi sforzi intellettuali, di chi ha poca istruzione; sia per il poco conto che la gente minuta fa di una giustizia sociale, che in ogni tempo ebbe le maggiori con discendenze pei grandi delinquenti; sia per la coscienza nei ceti, che danno il maggior contingente alla criminalità, delle incertezze e della impotenza del magistrato inquirente a colpire il reo; sia per il coraggio, la fierezza, lo spirito cavalleresco in coloro, che furono più trascurati dall’amministrazione pubblica o per tutti insieme questi motivi, il popolano fida su sé stesso, cerca giustizia nella vendetta. Vi hanno intere regioni nelle quali una gran parte del popolo minuto provvede privatamente alla propria difesa. Da noi la Sicilia colla mafia ne offre l’esempio più spiccato e del resto anche in Romagna l’uomo del popolo raramente denuncia il delinquente e spesso si fa giustizia da sé. In Piemonte il Barabba si comporta nello stesso modo. Tale fenomeno, che dura da secoli e che in passato fu anche più diffuso, mostra ad evidenza il poco conto in cui è tenuta in basso la funzione giuridica dello Stato. Se ciò è vero perde serietà anche l’ipotesi che i nulla tenenti possano essere indotti a pagare un prezzo di monopolio per i servizi giuridici, che essi ricevono dall’amministrazione pubblica per ciò che mancherebbero dei capitali necessari ad organizzare direttamente tali servigi. La giustizia sociale non è abbastanza apprezzata dai ceti inferiori per indurli a pagarla con una gran parte dei loro beni.

Adunque le valutazioni dei servigi pubblici variano considerevolmente da individuo ad individuo secondo ragioni geografiche, politiche, economiche, secondo l’educazione, il grado sociale ecc.

Or bene quando si rifletta a tutto ciò, si scorge che la immane imposizione, gravante sui ceti inferiori, non può essere motivata dalla considerazione che essa assicuri beni comuni più intensamente desiderati dei molti beni individuali, alla cui soddisfazione quei contribuenti abbiano rinunziato.

Così adunque, dato l’alto grado di utilità finale che le singole unità della ricchezza hanno pei disagiati, se si consideri nella sua vera efficacia sull’animo dei contribuenti poveri l’altro elemento del loro giudizio valutativo, cioè l’utilità dei servigi pubblici, si giunge alla conclusione che i ceti inferiori avrebbero dovuto in ogni tempo contribuire alle imposte in una misura assai tenue. Questa conclusione dovrebbe essere tanto più vera in riguardo a quelle età, nelle quali la plebe fu estremamente povera e subì il più feroce mal governo.

Senonché la storia dà a siffatte proposizioni la più solenne smentita. Il Sax è sfuggito a quelle assurde conclusioni supponendo che l’ opera etica o giuridica del governo abbia il più alto valore per tutti; egli ha dovuto venir meno ad una verità psichica per mettere d’ accordo la sua teoria colla verità storica cioè coi fatto della enorme imposizione pagata in ogni tempo dalle classi più povere.

Il nostro Graziani, che accoglie e si sforza di correggere la teoria del Sax, riconosce colla consueta acutezza che i giudizi sul valore dei servigi pubblici variano assai qualitativamente e quantitativamente da individuo ad individuo e che quindi non potrebbe ragionevolmente parlarsi di una media di tali valori, quale norma ed indizio della misura dell’imposta di ciascuno. Invece, secondo lui, il governo riuscirebbe a ciò accogliendo le designazioni dei servigi pubblici più specificate, quali sono intese dalle persone più colte, dalle classi più elevate. Tali designazioni comprenderebbero i fattori più importanti delle valutazioni confuse, sommarie, che fanno del governo le classi medie ed infime4. Ma io non riesco a sorprendere nelle valutazioni più differenziate dei servigi pubblici di un conservatore monarchico i fattori più importanti delle valutazioni dei servigi pubblici fatte da un radicale, da un socialista, da un anarchico. Lo stesso affermo dei giudizi di un uomo colto e ricco e di un altro ignorante e povero. Sicché le valutazioni qualitativamente e quantitativamente più specificate, di cui parla il Graziani, anziché costituire una norma sicura per l’interpretazione dei giudizi omogenei, ma confusi e sommari delle classi inferiori, sono anch’essi qualche cosa di ben diverso da questi per qualità e quantità. Il Graziani, quando considera le valutazioni più qualificate dei servigi pubblici, fatte dalle classi elevate, come sufficienti a determinare i ceti infimi all’imposta, ritorna inavvedutamente a dare efficacia sulla coscienza dei contribuenti più poveri ed ignoranti ad elementi per essi obbiettivi, estracoscienti. Se non si attribuisce più un valore assoluto all’Idea dell’Hegel, lo si attribuisce però agli apprezzamenti di un piccolo numero di persone incomprese alla maggior parte dei contribuenti.

§. VI.

   Si è visto che la teoria del Sax considera come moventi psicologici di una grande efficienza sulla condotta di tutti i contribuenti certi bisogni collettivi, i quali dalla maggior parte o non sono sentiti o lo sono pochissimo. È questo il primo errore del Sax circa le valutazioni subiettive dei servigi pubblici. Il secondo errore, che noi gli attribuiamo, costituisce l’inverso del primo ; vale a dire che l’illustre professore austriaco trascurò di attribuire ai contribuenti una grande quantità di bisogni collettivi, ai quali effettivamente lo Stato dà soddisfazione e che soli possono spiegare tutto quanto il fatto della imposizione nel tempo e nello spazio. La prima fallacia dipende dal non tener conto della diversità degli apprezzamenti dei servigi pubblici e della larga ignoranza dei medesimi. La seconda fallacia dipende dall’attribuire al governo soltanto servigi richiesti dallo sviluppo armonioso del corpo sociale e riposa sul disconoscimento degli effetti derivanti dagli antagonismi di classe. Infatti la produzione dei servigi pubblici, esclusivamente mantenuta nei limiti del bene comune, non avviene già, secondo la teoria austriaca, pel fatto che il governo si determini con una specie di predestinazione mistica ed attui necessariamente una grande idea ; ma pel fatto che tutti i membri di uno Stato, per via di reazioni, abbiano facoltà di costringere il governo all’ adempimento dei suoi compiti ideali, per guisa che solo in via di eccezione e momentaneamente l’attività dell1 ente politico potrebbe essere dannosa agli interessi comuni. Finché tutti i cittadini hanno ad un dipresso la stessa condizione economica, un uniforme grado di .agiatezza, una certa indipendenza e manchino grandi interessi antagonici, atti ad aggruppare gli uomini in nuclei o classi diversamente potenti, finché niuno ha la forza di far prevalere i suoi interessi particolari, il governo effettivamente dovrà mantenersi all’adempimento più rigoroso dei suoi doveri.

Non è già che anche qui non sorgano nel seno di ciascun individuo bisogni propri, ristretti, poiché egli tende naturalmente ad esagerare la sua importanza, ad accrescere la sua felicità senza molto curarsi degli altri. L’ egoismo più gretto, che si agita sì spesso in fondo all’animo dell’uomo incivilito, ebbe senza dubbio un grande impero sugli uomini di tutte le età. Fatta eccezione delle nature più equilibrate ed evolute, ognuno attende dal governo anche la soddisfazione dei bisogni collettivi più elevati solo in quanto gli giovino. Ma finché non si sono organizzati nuclei di interessi antagonici variamente potenti, ciascuno deve rinunziare a vedere soddisfatti dal governo quei suoi bisogni egoistici, che sarebbe felice di vedere così appagati, perché basta ad impedirlo la più piccola resistenza di tutti gli altri. Anche quando si sieno costituiti nuclei o classi con diverso grado di ricchezza e di potenza, la classe più debole non potrà ottenere dal governo istituzioni contrarie agli interessi comuni, finché i più forti troveranno che il danno che loro ne conseguirebbe sia maggiore del sacrificio richiesto dalla loro resistenza. E poiché lo sforzo richiesto per tale l’esistenza è minimo per ciascuno nella ipotesi di una grande prevalenza dei forti, così in tal caso il debole, a danno di quelli, potrà ottenere dal governo poco o nulla.

Il debole potrà solo conseguire istituzioni pubbliche vantaggiose per lui e non contrastanti gli interessi generali, a patto che si rassegni a sopportarne tutto il costo, cioè di pagare una tassa, dappoiché la maggioranza più forte si rifiuterebbe, senza tema d’incontrare alcun male, dal pagare imposte che andassero a profitto esclusivo della minoranza.

La condizione di inferiorità qui supposta di coloro, che troverebbero vantaggio da azioni governative ispirate ad interessi ristretti, include la loro impotenza di persuadere la collettività che ciò, che loro giova, giovi altresì a questa.

Poiché, se fosse altrimenti, vale a dire, se la minoranza riuscisse a convincere la maggioranza che il governo opera nel comune vantaggio, essa dovrebbe essere considerata, anziché in una condizione di impotenza, in una condizione di superiorità, sia pure soltanto morale.

Pertanto uno stato di cose, in cui le diverse classi si eguaglino per potenza o in cui queste manchino o vengano meno per la mancanza o per il venir meno degli interessi speciali, che le costituiscono, lungi dall’essere il fatto normale della storia dei popoli è un fatto eccezionale. Esso si riscontra specialmente quando alla grande fertilità del suolo corrisponde una rara popolazione. Parve bensì in un momento solenne dell’età moderna che un tanto evento fosse per compiersi definitivamente; ma non fu che una fugace illusione. Quando la plebe e la borghesia si unirono in un fascio per distruggere il sistema feudale e per abolire i privilegi della nobiltà e del clero, sembrò che le varie classi si fondessero in un gran tutto e che non si dovesse più parlare di interessi antagonici di classe.

Lo spettacolo ordinario invece, che offre la storia, è dato dal prevalere di una classe sulle altre e propriamente della classe, che ha il maggior potere economico, la maggiore ricchezza.

Se questa classe si ripromettesse dal governo soltanto la soddisfazione di bisogni etici o giuridici, troverebbe nella stessa sua superiorità economica (la quale le consente di disporre della sorte delle classi salariate) il mezzo di impedire all’ente politico qualsiasi deviazione da quegli uffici, mentre poi per la illuminata e differenziata valutazione, che essa fa di questi servigi e per il tenue valore subbiettivo da lei attribuito alle singole unità della sua ricchezza, fornirebbe all’erario una gran parte di ciò, che gli abbisogna. Ma anche la classe superiore , come qualsiasi individuo, ha dei bisogni propri esclusivi ; per esempio essa può avere interesse di disporre in modo esclusivo della proprietà terriera, che ad una parte della popolazione sia impedita l’accumulazione, che il lavoro produttivo, le faccende più moleste sieno riservate ad un ceto speciale, di sottrarsi a tutte o alla maggior parte delle spese occorrenti per ottenere questi risultati, ecc. La condizione di questa classe differisce dalla condizione, in cui vedemmo testé trovarsi la classe più debole, per ciò che, per ottenere dal governo la soddisfazione dei suoi interessi particolari, può fare assegnamento sulla superiorità della sua forza. A raggiungere i suoi intenti basterà che essa sia in grado di infliggere alla classe più debole pene maggiori di quelle, che questa, dovrà sopportare dal consentire alla classe superiore l’appagamento dei suoi bisogni particolari. Quando la classe più debole sia portata di fronte all’alternativa o di subire un male maggiore col rifiutare ai ricchi il raggiungimento di un certo loro fine o di subire un male minore col consentire loro il raggiungimento di quello stesso fine, è già posta la condizione per assicurare il trionfo del forte. Così,, se i longobardi ottennero dai vinti romani la cessione di una terza parte delle loro terre, ciò derivò dal fatto che questi considerarono tale cessione più utile che non un nuovo ricorso alle armi col conseguente pericolo della perdita di tutte le loro terre, della libertà personale e perfino della vita. Del pari, se la classe superiore sia in grado di disporre dell’opera del governo per guisa che i più deboli abbiano motivo di temere colla loro ribelle condotta mali maggiori di quelli attendibili dalla rinunzia ai compiti giuridici od etici del governo o dal pacifico pagamento dell’imposta, essi troveranno edonistico tanto un governo anti-giuridico o anti-etieo, quanto il pagare le imposte senza un corrispettivo in bene comune. Gli è solo quando essi considerino la soddisfazione del bisogno del forte più penosa dello sforzo per impedirla e delle conseguenze di questo, gli è solo allora che essi ricorreranno alla resistenza. La quale ora è provocata da un acuto e perfino spasmodico amore e quindi fugace, che il debole abbia per quei beni, a cui dovrebbe rinunziare; ora dalla persuasione, in cui egli si trovi, che la superiorità della classe nemica possa essere abbattuta e che quindi non sieno più temibili quei mali maggiori, che questa poteva infliggergli colla sua preminenza. Il Sax, che non tiene il debito conto delle disuguaglianze nelle forze delle varie classi e dei loro effetti, non si è fermato a considerare i nuovi bisogni che dalla persistenza di un tale stato di cose venivano formandosi in alto e in basso, la trasformazione dei bisogni dei ricchi in bisogni dei poveri, le concessioni di quelli a questi, i compromessi che ne derivano e cioè un nuovo insieme di bisogni collettivi, non più rispondenti al bene comune, sebbene rispondenti al bene di ciascuno, i quali formano il compito mutabile, estremamente vario, in sé stesso contraddittorio ed abituale di ogni governo. Ma qui noi siamo giunti innanzi ad un campo di nuove indagini degne del più alto interesse.

Queste ultime proposizioni esigono una larga spiegazione, che daremo in un altro articolo.

Amilcare Puviani

 

Note:

1 Puviani, Le idee finanziarie di Adamo Smith nella Riforma Sociale, Fascicolo I, Anno V, volume VIII. Seconda serie.

2 « Questa parte è stata insegnata ai principi, osserva il profondo politico, copertamente dagli antichi scrittori, i quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina gli custodisse il che non vuol dir altro l’aver per precettore un mezzo bestia e mezzo uomo ». Machiavelli : Il principe capo XIII.

3 Questo lavoro, che sta per essere pubblicato nell’Archivio Giuridico, non va confuso colla mia Teoria dell’illusione nelle entrate pubbliche, apparsa qualche anno fa. Il nuovo scritto ne è una correzione ed integrazione. Alcuni capitoli sono stati rifatti quasi interamente ed altri sette sono stati aggiunti.

4 Graziani, Istituzioni della scienza delle finanze, pag. 53.

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